Al Cairo il pane è introvabile, la povera gente assalta i forni. Da noi, sesto paese industrializzato, i pensionati sono costretti a rubare nei supermarket. Trentatré i Paesi a rischio insurrezione a causa della carestia. In Thailandia l’esercito presidia le risaie. Il prezzo del grano, nel mondo, è quadruplicato negli ultimi anni. Il paradosso è che le economie più povere di ieri, che stanno cominciando a conoscere la ricchezza come Cina e India, sono la causa stessa dell’impoverimento globale: più crescono, più consumano petrolio per farlo, più i prezzi delle materie prime si impennano. Invece di un’equa redistribuzione della ricchezza, la globalizzazione redistribuisce povertà. In fondo è la stessa cosa, ma è mutata la prospettiva: siamo noi, ora, a osservare con ingordigia i profitti dei primi paesi ricchi del Terzo Mondo e a sentirci progressivamente più poveri e minacciati. E questo -credo- sia solo l’inizio. Faccio parte della prima generazione che non ha mai conosciuto la guerra, che sa poco o nulla di sterminii, privazioni, borsa nera. Da noi discendono generazioni ancora più fragili, imbottite di cellulari e merendine, obese in tutto e per tutto, recalcitranti alla fatica e al dovere, intontite e sterilizzate culturalmente da sciocchezze televisive e mitologia da arricchiti: panfili, indossatrici, successo facile, coca e resort ai Caraibi.
Mi domando quale possa essere la nostra capacità di resistenza a una carestia, abituati come siamo. Abbiamo uno dei debiti pubblici più esorbitanti del mondo e ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse personalmente.
Io sono preoccupata e voi?
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