http://stefanosantachiara2.wordpress.com/2013/08/28/querelopoli-il-silenzio-regna-sovrano/
Non è retorica sostenere che la legislazione in materia di
diffamazione sia un palliativo ai colpi inferti alla libertà di stampa.
Il problema è connesso alla generale mancanza di volontà politica (e
delle lobby di riferimento) di far funzionare la Giustizia, dunque di
invertire la ratio di norme che producono il sovraccarico dei tribunali (l’editoriale di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera). Qui intendo occuparmi degli effetti devastanti che cause penali e civili possono avere sui giornalisti e sulla capitis deminùtio dei lettori, privati di notizie e inchieste di interesse pubblico. Il disegno di legge degli onorevoli Enrico Costa (Pdl) e Walter Verini
(Pd), approvato il 2 agosto 2013 dalla Commissione Giustizia e tra
pochi giorni in discussione alla Camera, vieta il carcere per i reati di
ingiuria e diffamazione a mezzo stampa lasciando la competenza al
giudice monocratico. Contemporaneamente però inasprisce le sanzioni
pecuniarie: oggi l’articolo 595 del codice penale prevede in caso di
condanna una reclusione da 6 mesi a 3 anni o in alternativa una multa
non inferiore a 516 euro. La nuova norma introduce una pena pecuniaria
sino a 10mila euro, che sale nelle forbice da 20 a 60mila euro se il
reato è aggravato dalla consapevolezza dell’atto diffamatorio. Si tratta
di una spada di Damocle sui bilanci delle piccole testate in evidente
contrasto con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che da
tempo stigmatizza le sanzioni pecuniarie sproporzionate. Per quanto
attiene all’informazione sul Web, ultimamente al centro dell’attenzione
politica, è stata resa obbligatoria la rettifica per le testate
registrate in tribunale, in termini decisamente tranchant per una
materia così complessa: entro due giorni, senza commento, a prescindere
dalla veridicità delle replica del presunto offeso (la riflessione di Bruno Saetta sul sito Valigiablu).
E pensare che la correzione, se declinata negli interessi di ambo le
parti, potrebbe essere lo strumento per ridurre i contenziosi. Ad
esempio, il legislatore potrebbe prevedere che la rettifica da parte del
cronista, in caso di errore in buonafede, estingua la causa in
partenza.
Si assiste ciclicamente al dibattito sullo spauracchio della
detenzione carceraria dei giornalisti come se non fosse un caso
rarissimo, in realtà ennesima teatrale bolla mediatica di cui si serve
il Sistema (sui cui meccanismi, in altri ambiti, torneremo presto). Il
più recente ha riguardato il direttore de “Il Giornale” Alessandro Sallusti, condannato in via definitiva per omesso controllo di un corsivo di sei anni fa sotto lo pseudonimo Dreyfus, alias Renato Farina.
L’agente Betulla dei Sismi, che ha palesato la paternità dell’articolo
l’indomani della sentenza, aveva leso l’onore del giudice tutelare di
Torino Giuseppe Cocilovo. Sallusti, che rischiava di
scontare ai domiciliari una pena di 1 anno e 2 mesi, fortunatamente ha
ottenuto la commutazione in pena pecuniaria dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, una grazia soft che ricalca la vicenda del collega e senatore Lino Iannuzzi, salvato da Carlo Azeglio Ciampi
nel 2005. Il problema concreto della giustizia in relazione alla nostra
categoria, piuttosto, è quello di rendere meno sproporzionate le
ripercussioni economiche e professionali tra le cosiddette “macchine del
fango” e chi sbaglia in modo colposo, e ancora da chi viene colpito da
querele intimidatorie. Oltre all’annosa questione della soglia
interpretativa entro cui si forma la sentenza di risarcimento del danno,
cagionato talvolta da scritti documentati, esistono condizioni di
“vulnerabilità” di una minoranza di giornalisti che pure non subiscono
condanne né soccombono civilmente: inchiestisti e cronisti
che intervengono a titolo personale a convegni, trasmissioni radio e tv,
scrivono come freelance o si ritrovano dalla sera alla mattina senza la
tutela legale dell’editore. E’ necessario ricordare che spesse volte
gli avvocati sono da retribuire anche quando nel procedimento
giudiziario il giornalista vanta il 100% delle ragioni. Il codice di
procedura penale sottolinea che in caso di assoluzione dell’accusato il
querelante possa essere condannato al rimborso delle spese legali e ad
un risarcimento (articolo 542 c.p.p.) ma la norma trova rara
applicazione. In ogni caso, soltanto per un accesso agli atti e
un’udienza preliminare il cronista più inattaccabile può dover
riconoscere al difensore alcune migliaia di euro. La riforma
dell’ ordinamento professionale forense (legge 247 del 2012) rimanda,
per la determinazione delle spese legali, all’articolo 2333 del codice
civile lasciato intonso dalla liberalizzazione dell’ex ministro per lo
Sviluppo Economico Pier Luigi Bersani: “Il compenso, se
non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le
tariffe o gli usi, è determinato dal giudice; in ogni caso la misura del
compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro
della professione”. Consideriamo poi un aspetto non secondario per il
giornalista citato per danni: al termine del contenzioso, mediamente
lungo e ricco di udienze, non di rado il giudice decide per la
compensazione dei costi di giudizio (divisione tra le parti delle spese
legali e processuali) malgrado rigetti la causa infondata. Le parcelle
degli avvocati, in base alle suddette valutazioni tariffarie, aumentano
in relazione all’ entità delle richieste risarcitorie, solitamente
elevate nelle istanze minatorie. Se aggiungiamo che precari
e freelance ricevono compensi saltuari e inadeguati per un lavoro
impegnativo, il gioco è fatto. I potentati economici, politici e
criminali possono penalizzare fortemente il giornalista anche se ha
rispettato ogni regola del deontologicamente corretto: ha
scavato, scoperto, verificato ogni fonte e pubblicato vicende di
rilevanza sociale. E i protervi network che hanno perduto la battaglia
in tribunale? Almeno loro pagheranno lo scotto, si dirà. Certo, nel
preventivato costo del pool di avvocati che permette di centrare lo
scopo: creare per lungo tempo disagio al giornalista reprobo, colpendone
“uno per educarne cento” se i colleghi avessero intenzione di occuparsi
del medesimo scandalo. Infatti, al termine di tali processi civili, se
anche il giudice afferma la palese infondatezza del ricorso, pochissimi
cronisti presentano contro-causa per lite temeraria, in quanto
comporterebbe ulteriori anni di impegno e spese nei tribunali.
Porto ad esempio la mia esperienza. Nel marzo 2012, un mese dopo la
chiusura del giornale L’Informazione, subisco una causa civile intentata
da Cooprocon, una cooperativa citata nella puntata di Report di tre mesi prima dedicata al cosiddetto ‘Sacco di Serramazzoni’. La coop chiede al sottoscritto, alla conduttrice Milena Gabanelli e all’autore del servizio Giuliano Marrucci,
nonchè ai due cittadini intervenuti Francesca Ragusa e Oliver Zaccanti,
un risarcimento indeterminato ma comunque non inferiore a un milione di
euro ciascuno. Il processo è in corso, abbiamo rifiutato la mediazione
preliminare in quanto certi di aver riferito fatti documentati, di
interesse pubblico e in modo continente. Personalmente ho confermato
l’esistenza di un’indagine su una presunta lottizzazione abusiva e letto
visure camerali che dimostrano come il sindaco Luigi Ralenti
detenesse una piccola quota di una società collegata ai soci della
stessa cooperativa tramite partecipazioni a matrioska. Ralenti, per
inciso, è accusato di essere stato corrotto dall’ex soggiornante
obbligato gioiataurino Rocco Baglio nel primo caso di rapporti tra mafia e Pd scoperto in Emilia Romagna. Secondo il mio avvocato Fausto Gianelli,
già legale dei ragazzi pestati dalla polizia alla caserma Diaz durante
il G8 del 2001, si tratta di una azione “intimidatoria finalizzata a
imbavagliare la stampa scomoda”. La stessa posizione è stata espressa da
Ossigeno, Articolo 21, sindacato e Ordine dei giornalisti. Questo
contenzioso si va a sommare ad un’altra causa da 500mila euro (bontà
loro) intentata da una dipendente comunale che pure non veniva
identificata neppure con le iniziali nel mio pezzo su L’Informazione di
Modena. L’ultima frontiera di Querelopoli, però, sembra
essere la causa-fantasma, risorta come la Fenice dopo la morte del
giornale per chiedermi conto di un articolo che più anonimo e generico
non si può. A metà luglio 2013 vengo edotto dell’avviso di chiusura
delle indagini per il reato di diffamazione a mezzo stampa e al tempo
stesso dell’informazione di garanzia con la nomina di un difensore
d’ufficio. La cronaca incriminata concerne la vicenda di un militare
costretto a vivere in Accademia dopo la separazione dall’ex moglie che
invece possiede tre abitazioni, una storiella da trafiletto che non
ricordo di aver scritto, pubblicata nel novembre 2010 su L’Informazione.
La querela della donna, valida solo entro 90 giorni, è quindi stata
accantonata per quasi 3 anni e ripescata ora dalla competente Procura di
Cremona. Piccolo particolare: l’articolo non è siglato. Secondo
dettaglio: né il militare né la ex consorte sono minimamente
identificabili. Dato che nel frattempo L’Informazione ha chiuso i
battenti, essendo stata privata dei contributi per l’editoria per
effetto di accuse poi rivelatesi infondate, dovrò ancora una volta
pagare l’avvocato. A chi, dopo il caso di Report, raccontava che per
respingere gli attacchi basta “fare bene il proprio lavoro”
giova ribadire i succitati dati di realtà: un giornalista privo di
tutela legale deve sostenere l’ onorario dell’avvocato anche se esce
indenne dal procedimento e, nel civile, può dividere le significative
spese di giudizio quand’anche la parte ricorrente sia soccombente. Ne
consegue una sorta di giornalista del nuovo millennio “vincente e
mazziato”. Fino a quando L’Informazione era in vita (2007-2012) non
davano problemi le cause più o meno infondate, così come non ne
provocherebbero se ne arrivassero per i miei articoli sul Fatto
Quotidiano (finora nessuna). Tutte le querele di allora, intentate in
prevalenza da politici, affaristi, mafiosi direttamente o tramite i loro
sgherri, si sono concluse con l’archiviazione o il proscioglimento.
Ricordo in particolare il caso di Lorena Teneggi, finta
commercialista modenese pluridenunciata e assolta per truffe e
appropriazioni indebite, ma condannata a 3 anni nel 2006 grazie alla
barista-edicolante Tina Mascaro: Teneggi, dopo essersi fatta assumere come contabile, intascava il denaro dell’attività della Mascaro già messa a dura prova dal braccio di ferro con il Comune.Nel
pezzo, oltre a ripercorrere le gesta di Teneggi altrimenti ignote,
scrivevo della fase finale del processo dov’era imputata per bancarotta
fraudolenta di una società intestata ad un camionista, ricordando che
nel procedimento connesso il titolare, condannato con il rito
abbreviato, l’aveva chiamata in correità quale amministratrice occulta.
Per la cronaca Teneggi, anche grazie alle smentite dei funzionari di
banca a dibattimento, fu assolta dall’accusa che l’avrebbe condotta in
carcere, querelò invano per l’articolo e il sottoscritto non dovette
versare un euro per difendersi. Questo significa avere le spalle coperte
per esercitare il diritto-dovere di informare i cittadini.
In conclusione la censura oggi possiede un’arma, quella delle cause temerarie per diffamazione con o senza mezzo stampa, in sede penale o civile, un’arma che diventa formidabile se inoculata nelle “finestre di vulnerabilità” di un ex redattore, un autore di libri o un pubblicista freelance privi di copertura legale. L’altra faccia della medaglia riguarda il fatto che taluni colleghi pluri-garantiti sono invece liberissimi non solo di continuare a tacere, minimizzare o manipolare le notizie sgradite, ma persino di infamare senza pagarne il fio. L’editore di peso, che in Italia ha interessi nei settori più svariati, si fa carico delle spese di giudizio e di molto altro: dalla transazione per la remissione di una querela al pagamento del risarcimento per cui risponde in solido, talvolta della pena pecuniaria inflitta al dipendente. Al contrario, una copertura estesa difficilmente potrà essere sostenuta dai piccoli giornali e dai siti di informazione, soprattutto se i collaboratori venissero bersagliati da azioni legali modello “pizzino”. Per le testate online la prospettiva sarebbe funesta se, come auspicato da più parti, dovessero diventare punibili con l’art. 595 anche i blogger collegati e i commenti dei lettori. Ecco il paradosso, o doppiopesismo castale. Possibile che la libertà di informazione sia messa in pericolo soltanto dalla minaccia di chiusura di programmi tv di conduttori famosi e non quando viene silenziato il cronista scomodo? Evidentemente sì, non solo per il conformismo diffuso che celebra riti e miti mediatici a costo (e rischio) zero trasformando (tristemente) in atto di coraggio il giornalismo che non fa sconti, ma per la contraddizione di fondo del watch-dog all’italiana, un contropotere troppo legato ai veri poteri, in balia di aumenti di capitale, endorsement pubblicitari, contributi pubblici per l’editoria, partitopoli e parentopoli (to be continued…).
In conclusione la censura oggi possiede un’arma, quella delle cause temerarie per diffamazione con o senza mezzo stampa, in sede penale o civile, un’arma che diventa formidabile se inoculata nelle “finestre di vulnerabilità” di un ex redattore, un autore di libri o un pubblicista freelance privi di copertura legale. L’altra faccia della medaglia riguarda il fatto che taluni colleghi pluri-garantiti sono invece liberissimi non solo di continuare a tacere, minimizzare o manipolare le notizie sgradite, ma persino di infamare senza pagarne il fio. L’editore di peso, che in Italia ha interessi nei settori più svariati, si fa carico delle spese di giudizio e di molto altro: dalla transazione per la remissione di una querela al pagamento del risarcimento per cui risponde in solido, talvolta della pena pecuniaria inflitta al dipendente. Al contrario, una copertura estesa difficilmente potrà essere sostenuta dai piccoli giornali e dai siti di informazione, soprattutto se i collaboratori venissero bersagliati da azioni legali modello “pizzino”. Per le testate online la prospettiva sarebbe funesta se, come auspicato da più parti, dovessero diventare punibili con l’art. 595 anche i blogger collegati e i commenti dei lettori. Ecco il paradosso, o doppiopesismo castale. Possibile che la libertà di informazione sia messa in pericolo soltanto dalla minaccia di chiusura di programmi tv di conduttori famosi e non quando viene silenziato il cronista scomodo? Evidentemente sì, non solo per il conformismo diffuso che celebra riti e miti mediatici a costo (e rischio) zero trasformando (tristemente) in atto di coraggio il giornalismo che non fa sconti, ma per la contraddizione di fondo del watch-dog all’italiana, un contropotere troppo legato ai veri poteri, in balia di aumenti di capitale, endorsement pubblicitari, contributi pubblici per l’editoria, partitopoli e parentopoli (to be continued…).
Nella giustizia penale sarebbe un passo avanti
l’applicazione dell’opzione della condanna del querelante sconfitto al
pagamento delle spese, in quella civile basterebbe inserire una norma di
poche righe: sia data facoltà al giudice di valutare nel merito
l’istanza in via preliminare e, ove fosse manifestamente infondata, di
cassare irrogando una multa per l’assurdità esaminata. Stop, con buona
pace degli intenti intimidatori e delle prebende degli avvocati. Oppure
si potrebbe stabilire che chiunque trascini in tribunale chiedendo
risarcimenti astronomici sia infine costretto, in caso di rigetto, a
pagare alla controparte la stessa somma. Nelle nuove norme non c’è
niente che vada in questa direzione. E se provassero, per vedere
l’effetto che fa?
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